venerdì 3 dicembre 2010

Precariato cognitivo: primi passi a sondare la questione



Il mio attuale, principale datore di lavoro - essendo io afferente al popolo delle partite iva, e potendo vantare quindi più datori di lavoro contemporanei [non fosse così, l'Agenzia delle Entrate, e susseguentemente il mio commercialista, se ne avrebbero a male] - il mio attuale-principale datore di lavoro, dicevo, circonfonde lo spazio a sé circostante di sostanze gastritopoietiche: trascina con sé dentro gli ambienti lavorativi un microclima di battutacce, frecciatine, violenza verbale e umiliazione di davvero complicata gestione; e mentre sei lì che tenti di assorbirne gli urti – più crudeli in quanto, spesso, immotivati - subito arriva una specie di risarcimento beffardo, di repentino cambio di temperatura: generato – il cambiamento – da dichiarazioni d'una falsità sorda, e disorientanti: Ma lo si fa per scherzare, eh. Ma tra amici, ce le possiamo dire queste cose, no? Cose del genere.
Frattanto, nello stomaco, le sguiscide pareti della tonaca mucosa si maculano delle efflorescenze della gastrite...

Mi si è messo davanti gli occhi, qualche giorno fa, questo: un articolo piuttosto pressante su precariato cognitivo, derive sociali, schizofrenia de’ tempi nostri e àtri eccetera. Sono in treno, quando lo leggo: sto tornando da Roma, dal corso propedeutico di materia d'Arte che seguo presso un blasonato importantissimo istituto statale di coniazione delle monete. Sono partito da Padova alle 00:45 della mattina stessa con un IC-notte senza riscaldamento, i corridoi infestati da voci partenopee aggressive e improvvise. Piove; mangio biscotti spugnosi dal filling all’arancia*. Da qualche parte tra i commenti all’articolo leggo, a’un certo punto:

io dipendente, ho maggiori possibilità di scegliere ed eventualmente di diversificare negli anni la mia attività lavorativa, e non necessariamente all’interno dell’azienda presso cui attualmente lavoro. Il datore di lavoro sa che è esposto al rischio di perdere quella risorsa specializzata [cioè “io”, nd Il Vostro], per la quale ha investito tempo e denaro. In altre parole: datore e dipendente hanno una certa “forza di ricatto” l’uno sull’altro (al di là degli eventuali rapporti di stima e fiducia che si instaurano) e questo può avere una serie di positive ricadute.

Una serie di positive ricadute, sì: od’un disvelarsi improvviso – via il telo! – de’ maccanismi più intimi del rapporto datore di lavoro barra giovane professionista del popolo delle partita iva: maccanismi presto disegnati, in cinque semplici e leggerissimi movimenti monologici e, o, dialogici.

Primo movimento: martellante con brio.
Quattro frasi violente che punteggiavano la mia giornata lavorativa, prima.

1. e sbrigati.
2. allora? Mi fai vedere qualcosa di fatto, sì o no?
3. è meglio che controlli io, ché tu non capisci un cazzo.
4. è inutile che provi a farlo da solo, ché da solo non ce la puoi fare.

Secondo movimento: scherzo.
A pronunziarsi en passant alle spalle del giovane professionista, mentre questi lavora.

1. […] dai che così andiamo avanti… se lui si sbriga.
2. potremmo consegnare in tempo, se lui non pensasse sempre all'Arte.
3. potremmo consegnare in tempo, se lui non pensasse sempre alla figa.
4. dai, smettila di pensare alla figa, e datti un po' da fare.

Terzo movimento: rivelazione.

giovane professionista: vi annuncio che seguirò l'Arte: e per due giorni alla settimana non sarò disponibile.

Quarto movimento: venti minuti consecutivi di silenzio.
Non è una interpretazione di John Cage.

Datore di Lavoro: ...

Quinto movimento: disvelarsi, in forma di pizzicato.

1. certo che sei diventato proprio bravo.
2. ma che bel lavoro che hai fatto.
3. sono davvero dispiaciuto, che tu abbia questo impegno, perché sei davvero eccetera.

* fottuti discount d’origine tedesca.

2 commenti:

  1. grazie, dalle tue terre ghiacciate preistoriche. Ma in fondo, questo è solo un preparare il terreno a eventuali altre considerazioni - l'articolo di Raimo è abbastanza stimolante, l'hai letto?

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