Brian Peter George St. John le Baptiste de la Salle Eno, meglio noto come Brian Eno, è senza dubbio il più significativo musicista del Novecento. Tra centinaia di anni verrà ricordato e celebrato come uno dei migliori compositori di sempre al pari di Mozart e Beethoven. L’avere avuto a che fare in poco meno di quindici anni (tra i primi ‘70 e la metà degli ’80) con un innumerevole campionario di generi musicali (dal pop al rock, dalla musica elettronica all’avanguardia, dal minimalismo al funkadelistico massimalismo di Talkingheadsiano ricordo) generando ogni volta straordinari capolavori e riuscendo, se non bastasse, ad inventare sotto-generi, quali l’ambient ed altre nuove forme musicali entrate nel vocabolario comune a tutti gli utilizzatori, compositori e non, che abbisognano di riempire i propri spazi con musiche al tempo stesso ascoltabili e di qualità, lo pone certamente allo stesso livello di Maurice Ravel, se non più in alto. Anzi, personalmente opterei per la seconda possibilità se non fosse che l’invidia personale nei confronti di tutte le celebrità viventi m’impedisce di esprimere il giusto riconoscimento delle loro qualità. Detto questo, veniamo all’oggi. Dall’ultimo contributo realmente significativo elargito da costui alla musica dei nostri tempi, ovvero sia alla produzione dei primi dischi di successo degli U2, sono trascorsi almeno 20-25 anni. Capirete quindi come intorno a lui si sia sviluppata un’area di sfiducia giustificata, di passatista convinzione secondo cui il genio si sia ormai esaurito per sempre. Eh già, perché i segnali di una decadenza sono tutti lì, evidenti, nei suoi infelici tentativi, eretti sulla punta ondeggiante della scontatezza, di esprimersi a tutti i costi in modo creativo. Un’ arte palmare quella di Eno, quasi da smart phone. Scegli un’app predefinita, ma che, cristo, fa fico solo per chi non ha mai conosciuto una qualsiasi fanzine sotterranea, ed ecco confezionata una musica, un audiovisivo, una pittura che originale vuole essere ma poi fallisce come ogni malcapitato oggetto artistico difronte alla portata dei suoi predecessori.
Ciò accade anche con quest’ultimo video, dal titolo “Dick Flash intervista Brian Eno”, e realizzato in occasione dell’uscita del suo ultimo album, “Small Craft on a Milk Sea”. Il consiglio che do a tutti è di non guardarlo, per il semplice fatto che è noioso. Il plot, anche qui, è già visto: Eno intervista se stesso sotto le mentite spoglie di Dick Flash. Indossando parrucca e occhiali e camuffando la voce, intervista per nove minuti e mezzo se stesso non lasciandogli (o lasciandosi?) alcuno spazio di risposta, essendo che l’alias, Dick Flash, è in realtà la caricatura del critico musicale egocentrico, desideroso di esibire la propria interpretazione dell’artista (sia l’artista interlocutore che quello dentro di sé, quello mancato e frustrato).
Dick Flash scrive per la fittizia “Pork Magazine”, ed Eno lo ascolta, cercando inutilmente d’intervenire. Alle sue spalle, l’immagine fissa dello sfondo del suo Mac: una porzione della foto interna della copertina di “For your pleasure” dei Roxy Music, che lo ritrae a vent’anni in incondizionata posa glam (capelli lunghi, mise sottile e femminea , cerone, lucidalabbra e chitarra imbracciata con intenzione fallicida). In mezzo al monologo di Dick Flash, Eno riesce qualche volta a dire qualcosa tipo “La pittura è come il jazz: vai dove ti porta, senza nessuna regola", oppure cita a memoria la legge sul diritto d'autore del 1956 per poi raccontare di avere risparmiato dalle gravi pene di un processo un tredicenne accusato di avere scaricato un suo disco, ordinando però in un secondo momento ai suoi roadies di sfasciargli la bicicletta in segno di avvertimento. Poi Eno accenna più volte ad un presunto “gran suono di chitarra”, prima riferendosi a Malcolm Mclaren e poi a The Edge degli U2, senza che Flash colga l’importanza dei riferimenti e riesca ad approfondire il discorso. In questo giochino c’è un obiettivo duplice, come duplice è la raffigurazione fornita dal personaggio Brian/Dick: banalizzare se stesso fuoriuscendo con osservazioni che agli acuti conoscitori della materia “Eno” parrebbero assolutamente scontati, ed allo stesso tempo prendersi gioco proprio di questi ultimi , che – stando al senso di questo giochino – non dovrebbero prenderlo troppo sul serio. Pena: ridursi a diventare proprio come Dick Flash.
Il video è lungo, troppo lungo e pieno di banalità, tanto che l’attenzione scivola inevitabilmente sui vetri in stile tiffany piuttosto che sui dischi di platino vinti per la produzione di “Viva la vida” dei Colplay appesi alla pareti. Verso la fine dell’intervista Flash cerca di far elencare ad Eno la lunga lista di artisti celebri che hanno collaborato con lui negli anni per poi non riuscire a trattenersi dall’enunciarla lui, la lista. Un finale del genere non merita di essere commentato. Non c’è progressione nella programmazione di questa intervista con se stesso. Tutto sembra uguale, dalla prima domanda all’ultima non risposta, proprio come la musica da lui composta negli ultimi vent’anni. In sostanza, una mediocre copia di un critico maniaco intervista un aristocratico artista ormai troppo lontano dal fulcro che fu della sua musica. Due personaggi mediocri impersonati dal medesimo uomo.
Eno.
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